XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
15 novembre 2020
“ Bene, servo buono e fedele…”
Dal Vangelo secondo Matteo, Capitolo 25, versetti 14-30
La parabola dei servitori cui sono stati affidati i talenti non fa che approfondire la prospettiva di quella di domenica scorsa (Le 10 vergini). Siamo alla resa dei conti!
Secondo Ireneo di Lione il denaro affidato ai servi significa il dono della vita accordato da Dio agli uomini, Dono che è anche compito e che chiede di non essere sprecato, né ignorato o disprezzato, ma accolto con gratitudine attiva e responsabile.
Per capire con quale fine Gesù ha raccontato questa parabola, dobbiamo porci una domanda: dobbiamo chiederci quale sia il ‘nocciolo’ del racconto, ossia l’elemento su cui il narratore cerca di attirare l’attenzione.
La scena principale è il rendiconto al momento del ritorno del Signore. Dobbiamo dunque concentrare l’attenzione sul servo cattivo: la chiave del racconto sta infatti nel dialogo tra lui e il suo signore.
Per farsi un idea di coloro a cui Gesù indirizza la parabola, basta ascoltare le spiegazioni date dal servo cattivo (v.24 e seguenti): il suo scontento non lascia dubbi, si tratta degli scribi e dei farisei, dei pii osservanti della legge. Di fronte alla condotta di Dio che si manifesta in Gesù essi insorgono: se Dio si comportasse come Lui dice, non sarebbe giusto!
Questi interlocutori di Gesù compiono esattamente il loro dovere, si attengono strettamente alla giustizia, ma si rifiutano di accettare che il Signore esiga da loro più di quanto è legalmente prescritto.
Il signore della parabola, che esprime evidentemente il punto di vista di Dio, mostra a questi tali il loro errore.
Nel versetto 26 vediamo il padrone che vuol mostrare al servo il suo errore, ponendosi dal suo punto di vita, ma subito, al v.27, gli dimostra che egli non ha compreso il significato del deposito che gli era stato affidato. Ricevere un dono è ricevere una responsabilità: quella di far valere questo dono!
I primi due sono dei servitori “buoni e fedeli” (vvv.21-23) perché fanno circolare ciò che hanno ricevuto, e i loro talenti fruttificano.
Il terzo non ha riconosciuto che il suo talento era un dono, e non ha capito che il suo padrone, recandosi lontano, rimaneva presente nel suo dono.
Improduttivo per sé e per gli altri, si scopre povero, privato dell’unico talento che aveva messo al sicuro.
In questa parabola S. Matteo vuole esortare alla vigilanza (tema che percorrerà tutto il tempo di avvento, ormai alle porte).
Il versetto 19 precisa che il signore ritorna “dopo molto tempo”: Matteo invita i suoi ascoltatori ad essere ‘vigilanti’ al pensiero del giudizio a cui verrà sottoposta la loro condotta e da cui dipende il loro ingresso nella felicità del regno (v.21. 23: “entra anella gioia del tuo Signore!”).
Il tempo dell’’assenza’ del Signore, più che un tempo cronologico, è lo ‘spazio’ in cui ognuno può e deve assumere le sue responsabilità: il Vangelo è un capitale; quelli a cui è stato affidato non hanno il diritto di lasciarlo improduttivo. Devono farsi trasformare da esso: questa è l’accoglienza operosa del Regno a cui invita la parabola su cui stiamo riflettendo.
In questa prospettiva, ciò che manca al servo cattivo è l’amore e la libertà data dall’amore, che non ha paura del rischio.